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San Marcello

Vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia

E’ dunque arrivato il momento di salutarci. Ai primi di settembre il Vescovo indicherà il nuovo parroco di San Marcello ed io mi trasferirò a Roma per adempiere a tempo pieno alla nuova missione che ho ricevuto di direttore della Fondazione Migrantes.

Un momento che mi è stato presente fin dai primi giorni della mia presenza fra voi in quel lontano gennaio 1993. Giorni burrascosi per l’opposizione al trasferimento del parroco precedente. Per questo fino al 13 settembre 1993 non sono stato parroco di San Marcello, ma “amministratore parrocchiale”, in attesa di conoscere l’esito del ricorso alla congregazione del clero. In quei giorni mi sono detto che avrei potuto sbagliare molte cose, ma non il mio trasferimento. Che avrei dovuto mostrare come l’unico Pastore delle nostre anime è Cristo, e che con la stessa disponibilità con cui alle parole del mio Vescovo che mi diceva: “Vieni a San Marcello”, sono venuto, quando mi avrebbe detto: “Vai”, sarei dovuto andare. Che avrei dovuto rimanere semplice “amministratore”, sempre provvisorio, e … sono rimasto più di 24 anni!

Voglio salutarvi alla luce di una bellissima pagina degli Atti degli Apostoli, è il saluto di Paolo ai responsabili della comunità di Efeso. Paolo è in viaggio verso Gerusalemme dove deve portare a termine una iniziativa a cui teneva moltissimo: consegnare ai poveri della Chiesa di Gerusalemme il frutto di una colletta che aveva promosso fra le Chiese nate fra i pagani, come segno di comunione fra tutte le Chiese. Sa però che a Gerusalemme lo attendono catene e tribolazioni. La nave fa scalo a Mileto, e di qui manda a chiamare i responsabili della Chiesa di Efeso, una Chiesa che lui aveva fondato rimanendo in quella città per tre anni.

Da Milèto mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù.

Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio.

Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi.

Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!».

Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave. (Atti 20,17-38)

Possiamo distinguere nel saluto di Paolo grosso modo tre parti:

  1. La memoria (20,18-21), dove l’apostolo rievoca i tre anni vissuti ad Efeso

  2. La coscienza (20,22-27), dove esprime la sua consapevolezza del presente e di ciò che l’attende

  3. Le consegne (20,28-31), dove getta uno sguardo sul futuro che attende la comunità

Segue poi una conclusione (20,32-35) in cui Paolo riprende in sintesi alcune idee già esposte, e un finale narrativo (20,36-38).

Anch’io in questo mio saluto voglio seguire un percorso analogo.

La memoria

E’ difficile fare memoria di questi oltre 24 anni, intensissimi, passati insieme, in particolare per uno come me a cui la memoria fa difetto. Ma, come dice l’apostolo, e lo ripete due volte, voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno, la mia vita, nel bene e nel male, è stata sotto gli occhi di tutti.

Il primo sentimento guardando agli anni passati insieme è quello dello stupore e della gratitudine. Se Paolo confessa di aver servito il Signore fra le lacrime e le prove, io l’ho servito invece circondato dall’affetto e dall’aiuto di tanti di voi, a cominciare dalla sera di quel 16 gennaio, quando venni fra voi “in debolezza, con molto timore e tremore” (1Cor.2,3), e mi accoglieste con un fragoroso applauso. Quanti momenti splendidi in questi anni, di cui ringraziare il Signore!

Anzitutto le liturgie: le veglie di Pentecoste, soprattutto nei primi anni, e la Pasqua. Ci sembrava veramente che lo Spirito spazzasse via ogni nostra tristezza e ci desse nuova audacia! La celebrazione dei sacramenti: matrimoni, prime comunioni, battesimi, cresime e perfino le esequie, non momenti rituali, ma incontri col Risorto, dove tante volte anche noi lo abbiamo riconosciuto presente nello spezzare il pane, e ho visto gli occhi lucidi di tanti fedeli. E poi la messa delle 10, così piena di gioia e di abbracci. E le confessioni! Quante sere sono andato a dormire stordito dalla gioia, dopo aver visto rinascere nelle lacrime chi si era perduto.

I campi-scuola, esperienze indimenticabili con i ragazzi, ho girato con voi tutta l’Italia. E i pellegrinaggi fatti insieme, esperienze dello Spirito, ad Assisi, Camaldoli, Sotto il monte, Roma e Nomadelfia, Caresto … E quanti testimoni sono passati in mezzo a noi: da Tina Anselmi a Rita Borsellino, da don Ciotti a don Benzi, da Lella e Pinuccio Fazio a Paola Bignardi, da Simona Atzori a tanti altri …

Ma quello di cui vi sono più grato, è di aver fatto di San Marcello un grande albero che, nato nella piccolezza, perché Dio opera attraverso i poveri e nella povertà, offre rifugio “agli uccelli del cielo che si annidano tra i suoi rami” (Mt.13,32). E veramente a San Marcello tanti piccoli trovano riparo: stranieri, persone sole o che hanno perduto i loro cari, anziani, bambini che non hanno nessuno che si prenda cura di loro, gente in ogni tipo di difficoltà. Mi avete assecondato in ogni mia “follia”, dalla “Casa di Betlemme” nata il 3 ottobre 1999 alle “Querce di Mamre”, “ricordandovi delle parole del Signore Gesù che disse: vi è più gioia nel dare che nel ricevere!”. E poi sono infinitamente grato ai sempreverdi di aver dato “vita” ai miei genitori, da cui ho ricevuto molto e restituito poco, nei loro ultimi anni.

Vorrei ringraziarvi per questo ad uno ad uno, a partire da Cosimo e Gina Maggi che da subito mi hanno adottato, trasformando così il dolore per la perdita del loro figlio in una occasione di bene. Per tanti anni hanno provveduto a me e ai sacerdoti che erano con me! E poi Vincenzo Parisi, presenza simpatica e intelligente al servizio della comunità finchè è vissuto. Pierina, Mariella, Rosaria, quanto lavoro per il decoro della Chiesa! Sabino, Gino, Eppy, senza di loro non avremmo potuto avere quelle strutture accoglienti e funzionali che ora abbiamo. E poi Angela, il volto femminile della parrocchia, e Piero, Marisa, Adriana, Angela, Felice e Marina, Luciana, Mario, Nicoletta, Michele, Jean-Paul, Filippo … è un elenco interminabile e finirei col dimenticare inevitabilmente qualcuno. Ma siete tutti incisi nel mio cuore. E poi i sacerdoti che mi hanno tanto aiutato: don Nicola Laricchia, don Nicola Mastrandrea, il diacono Michele Mastromatteo, don Luciano Cassano, don Lino Modesto e ora don Francesco Necchia, i gesuiti, i paolini, i comboniani e i guanelliani.

Ma a questo sentimento di gratitudine si accompagna il rammarico per tutto quello che non ho fatto, a causa della mia pigrizia, del mio egoismo e paure. Io non posso dire come Paolo “di non essermi mai sottratto a ciò che poteva essere utile”. Quanti giovani e meno giovani si sono dispersi per colpa mia, non ho saputo accogliere e accompagnare! A quanti di voi non sono stato vicino come avrei dovuto e non si sono sentiti amati e ascoltati da me. E anche nella preghiera e nell’amore alle Sacre Scritture non vi sono stato di esempio. Vi chiedo perdono di questo, nella fiducia che il Signore colmerà anche queste mie mancanze.

La coscienza

Dopo lo sguardo sul passato, Paolo esprime la sua consapevolezza del presente e di ciò che l’attende. Sento particolarmente mie queste sue parole: “E ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà”. Anch’io non so ancora bene cosa questo mio nuovo incarico comporti. Ma credo che sia lo Spirito che mi conduce a Roma, che mi ha parlato prima attraverso mons. Perego che qualche tempo fa mi diceva dolcemente: “Se ti chiedono di diventare direttore della Migrantes … non dire di no!”. E poi attraverso la voce del mio Vescovo. Rifiutarmi sarebbe stato per me opporre resistenza allo Spirito Santo (Atti 7,51).

Mi conduce a Roma non solo per svolgervi un incarico, ma per entrare più profondamente nel mistero di Cristo, per seguirlo più da vicino, secondo le parole conclusive del Vangelo della mia ordinazione: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi»” (Gv.21,18-19). E per contribuire nel mio piccolo a questa stagione straordinaria di rinnovamento inaugurata da papa Francesco. Non è e non la vivo come una promozione, al contrario è lasciarmi spogliare da tante sicurezze che ho qui fra voi ed essere ricondotto alla mia piccolezza. Mi sento come Pietro che Gesù chiama a lasciare la barca e camminare sulle acque … Mi occorre un atto di fede. Ma vi ho sempre invitato a non avere paura di osare le cose difficili, a giocarvi la vostra vita, come ora tirarmi indietro? Ho molto bisogno della vostra preghiera.

Ma mi sembra che lo Spirito voglia condurre anche la nostra comunità su vie nuove, e che volere a tutti i costi restare fra voi sarebbe impedirlo, un atto di egoismo da parte mia. Molte famiglie giovani stanno venendo ad abitare nel quartiere e altre ne verranno con la costruzione di nuovi palazzi. I ragazzi chiedono che qualcuno torni a giocare e a stare con loro. Occorre un nuovo slancio missionario. Ho fiducia che questo passaggio gioverà alla vita della parrocchia.

Le consegne

Infine Paolo fa alcune raccomandazioni. Che dirvi?

  1. Anzitutto non attardatevi nel passato, non dite mai: “Si è sempre fatto così!”. In questo modo non saprete ascoltare ciò che oggi lo Spirito dice alla Chiesa. Non c’è niente di peggio di un prete che pretenda di ripetere nella sua nuova comunità ciò che ha vissuto nella precedente. O di una comunità che pretenda che il nuovo parroco assomigli al precedente. Lo Spirito ci porta sempre su vie nuove. “Vivere è cambiare”, diceva il cardinal Newman.

  2. Non chiudetevi nel vostro gruppo. Abbiate cura della comunità, e fate in modo che essa respiri con la Chiesa locale, anzi con la Chiesa sparsa su tutta la terra. E’ la cosa che più mi ha affaticato in questi anni: cercare di coniugare l’accoglienza, il rispetto della diversità, e la comunione. Costruite quella convivialità delle differenze che è opera dello Spirito. Non preoccupatevi del vostro ramo senza avere cura del tronco che tutti ci porta. Non fate come coloro che sono soliti disertare gli incontri comuni e neanche leggono (non ne parliamo scrivere) quel giornale che è un po’ lo specchio della nostra comunità

  3. Se vi dicevo che dobbiamo essere disposti a cambiare le forme, dobbiamo però avere cura a non perdere il sapore evangelico che rende bella e attraente la nostra comunità. Siamo una comunità, come quella di Paolo, dove è possibile piangere e abbracciarsi. Nel nostro ultimo ritiro a San Severino lucano lo scorso aprile, la sacrestana mi diceva con tono perentorio: “Al segno della pace qui si dà la mano solo a chi sta a destra e sinistra!”. Una comunità sorridente, dove ci vogliamo bene e non si giudica nessuno, ospitale: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebrei 13,2). Vigilate che non ci siano maldicenze, invidie, che nessuno cerchi i primi posti, ma anzi l’ultimo, che è quello che ha scelto Gesù. Questo vale più di tutti gli incontri, le omelie e le catechesi!

Paolo infine si congeda dagli Efesini pregando, e anche noi avremo modo di farlo prima della mia partenza: “Ed ora vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia, che ha il potere di edificare … Detto questo, si inginocchiò con tutti loro, e pregò”. Notate la stranezza delle parole di Paolo. Non affida ai responsabili della comunità la Parola perché continuino ad annunciarla così come lui aveva fatto. Ma affida loro alla Parola. E’ la Parola di Dio che ci porta, ci custodisce dal maligno ed edifica la comunità. La comunità si edifica nella misura in cui noi accogliamo e viviamo il Vangelo.

Concludo con alcune parole dell’omelia pronunciata da Giovanni Crisostomo, il santo della mia nomina a parroco di San Marcello, prima di essere costretto (non è il mio caso) all’esilio:

“Ripeto sempre: Signore, sia fatta la tua volontà. Farò quello che vuoi tu, non quello che vuole il tale o il tal altro. Se Dio vuole questo, bene! Se vuole che io rimanga, lo ringrazio. Dovunque mi vorrà, gli rendo grazie.

Dove sono io, là ci siete anche voi. Dove ci siete voi, ci sono anch’io. Noi siamo un solo corpo e non si separa il capo dal corpo, né il corpo dal capo. Anche se siamo distanti, siamo uniti dalla carità; anzi neppure la morte ci può separare. Il corpo morrà, l’anima tuttavia vivrà e si ricorderà del popolo. Voi siete i miei concittadini, i miei genitori, i miei fratelli, i miei figli, le mie membra, il mio corpo, la mia luce, più amabile della luce del giorno”.

Continuerò a volervi bene, buona strada, donGi


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