Gerusalemme
Se dovessimo sintetizzare in una sola frase la liturgia di oggi, domenica 13a del tempo ordinario-anno C, avremmo un compito facile, perché potremmo dire semplicemente: «la svolta»; quella che, quando arriva, determina un cambiamento radicale nella vita, un punto di non ritorno.
La Prima lettura ci parla di una successione profetica, un’investitura con un rito quasi magico, segno dell’antichità del racconto. I riti si evolvono, le liturgie cambiano perché sono legate strettamente alla psicologia della persona e quindi si esprimono attraverso le sensibilità dei tempi. È assurdo pensare che una liturgia sia immobile, ed è fuori della storia chi si appella al passato in nome della tradizione come se le generazioni successive non avessero nulla da dire di proprio. Appellarsi all’immutabilità, per esempio, della Messa di Pio V (1570) significa assolutizzare un momento storico che è relativo per definizione, per natura e per grazia, a scapito di altri che hanno eguali condizioni e diritti.
Abituarsi al cambiamento dovrebbe essere un’ovvietà per chi crede in un Dio che ha assunto le categorie della storia per essere sempre nostro contemporaneo. Anche oggi non siamo lontani dai tempi di Elìa ed Eliseo, perché il confronto è tra la religione della magia e la fede dell’incontro e delle scelte consapevoli. La religione relega Dio nell’ immutabilità del mondo divino che bisogna accaparrarsi a forza di riti, offerte e sacrifici, rivelando così il volto di un «dio» mercantile, assetato di rituali sanguinosi, sadico perché gioisce della sofferenza degli uomini di cui è antagonista. Questo «dio» deve essere esorcizzato, conquistato, comprato attraverso lo scambio di qualcosa in cambio di qualcos’altro.
La fede invece esprime la nudità di Dio che si dichiara impotente di fronte alla dignità delle creature riconoscendole come figli ai quali si rapporta in quanto Padre. La fede è fiducia e relazione di sentimenti: si fonda sulla gratuità della libertà, espressa nella coscienza individuale che svela sempre e comunque la nudità dell’uomo. Dio e l’uomo nel rapporto di fede sono nudi entrambi perché nessuno ha qualcosa da dare che non sia la propria vita. Nella fede non vi è calcolo o criterio di utilità perché ambedue, Dio e l’uomo, sono consapevoli del rischio dell’incontro fondato sulla disposizione del cuore, i condizionamenti della vita, le difficoltà della storia, la lentezza del cammino, l’autenticità della ricerca. Per la religione è vero ciò che è utile, per la fede è utile solo ciò che è vero.
Ognuno di noi porta in sé una perla, un tesoro nascosto, che si chiama «vocazione», cioè compito, funzione, ruolo, scopo, prospettiva, progettualità, dimensione della vita. Essa non è appannaggio di preti e religiosi, perché se facciamo parte della «Chiesa», che significa «chiamata da…», noi siamo «chiamati», per grazia battesimale, a corrispondere a quell’immagine di Dio impressa in noi che lo Spirito del Risorto cerca, con il nostro consenso, di mettere sempre a fuoco, affinché corrisponda perfettamente all’originale, in forza del principio «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Eliseo compie un taglio netto con la sua vita e segue il suo maestro per prenderne lo spirito, il compito e la fatica. Non c’è vocazione che non esiga una scelta, una svolta, un discernimento tra ciò che deve accadere e ciò che effettivamente viviamo. Ogni vocazione è una proiezione sul futuro, non un rannicchiarsi sul passato. Non si è chiamati per essere i custodi di una Chiesa-museo, ma siamo «convocati» per progettare un futuro e lavorare all’impianto del Regno che viene. La vocazione è un’avventura, cioè una realtà che accade ogni giorno.
Il Vangelo descrive una situazione opposta a quella della 1a lettura: quattro comportamenti negativi. Un paese nemico che si rifiuta anche di incontrare Gesù e tre persone che con motivazioni diverse si defilano, come lascia intendere il racconto. L’elemento che accomuna questi quattro atteggiamenti è uno solo: tutti hanno paura di mettersi in discussione. I Samaritani sono prevenuti perché essendo nemici giurati dei Giudei fanno di ogni erba un fascio e non si domandano chi è questo Giudeo che, contro ogni logica, chiede di entrare nel loro paese. Essi perdono soltanto un’occasione perché, chiusi nei confini del loro passato, perdono di vista lo stesso presente e anche il futuro. I tre anonimi, che comunque sono chiamati o si offrono spontaneamente, di fronte alle difficoltà non vogliono perdere le loro sicurezze: la garanzia di vita, il padre, sebbene sia morto, e la famiglia come sicurezza affettiva.
Come uscirne fuori? La risposta è nella Seconda lettura, che ci offre il grido di Paolo, sintesi di tutto il suo «Vangelo»: «Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù … Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,1.13). Il messaggio centrale di Paolo è tutto qua: Gesù ci ha liberati dalla religione del dovere e dello scambio (preghiere e offerte in cambio di protezione, benedizioni, assistenza) e ci ha proiettati nella dimensione della libertà, l’unico ambito dove si può sperimentare l’incontro come «camminare verso… qualcuno», come desiderio di incontrare qualcuno, come passione d’amore. Senza libertà non può esserci amore e senza amore la libertà è annaspare nel vuoto. La libertà è il fondamento dell’amore e l’amore è il contenuto della libertà. L’una e l’altro formano il segreto della vita e della vita di fede.
Chi ama non ha paura di essere libero, chi è schiavo invece spesso desidera la libertà come licenziosità di fare ciò che vuole, rinnovando così il peccato di Àdam. Chi ama serve la libertà di amare, e chi ama scopre la gioia di servire come dimensione di libertà e di donazione. Solo chi è libero sa regalare la propria libertà alla persona che ama, diventando così la persona che sperimenta nello stesso tempo la dipendenza più radicale come dimensione della libertà più totale. Chi invece è gretto fa sempre calcoli e studia le convenienze utili al proprio tornaconto, perché l’unica dimensione che conosce è la relazione di prostituzione che è basata sul principio della reciprocità e della soddisfazione vicendevole. Chi è libero e amante, al contrario, è capace di buttarsi nella mischia perché sa che l’amore e la libertà sono il fratello e la sorella che lo guidano alla pienezza della vita. Anche in Dio.
Noi siamo chiamati. Io sono chiamato. Io sono chiamata. Avere coscienza della propria vocazione significa che non esistiamo per noi stessi, ma «viviamo per…»; ogni vocazione è una proiezione. Ognuno di noi è indispensabile nel piano del Regno di Dio e nessuno può prendere il posto di un altro. Se la Chiesa è una costruzione che si edifica ogni giorno, ognuno di noi è una pietra di sostegno, a sua volta sostenuta dalle altre. Nessuno è utile nel regno di Dio, ma ciascuno è indispensabile alla sua riuscita; se uno soltanto viene meno alla sua vocazione, il Regno ritarda, difetta, rallenta e infine resta più povero. Possa lo Spirito darci l’orgoglio di essere uomini e donne necessari e invochiamo dalla Santa Trinità le forze commisurate per vivere nella fedeltà alla vocazione che abbiamo ricevuto. (da un commento di Paolo Farinella, prete – Genova – http://paolofarinella.wordpress.com/category/liturgie)
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