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  • San Marcello

Un padre da uccidere?


Rembrandt van Rijn: Il ritorno del figliuol prodigo (1668) Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo

Rembrandt van Rijn: Il ritorno del figliuol prodigo (1668) Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo


Il titolo “Figliol prodigo” mette l’accento sulle nostre fughe e sulle nostre capacità di sperperare. Ma questa non è “buona notizia”. “Buona notizia” è il padre che sorprende, sì, fa scandalo con la sua esagerata misericordia.

Dopotutto quel figlio non era nemmeno il prototipo dei più puri tra i convertiti: alla casa, alla casa paterna, tornava -confessiamolo- un po’ anche per fame, costretto com’era a rubare ghiande ai porci.

In primo piano nella parabola non è la fuga ma l’emozione di un padre che vede da lontano, che corre incontro, si getta al collo, bacia il figlio, fa portare il vestito più bello, l’anello e i calzari, fa uccidere il vitello grasso, organizza la festa, musica e danze.

In primo piano non è lo spreco del figlio che ha scialacquato un patrimonio con le prostitute, ma lo spreco del padre, lo spreco della misericordia, quell’esagerazione di festa: parabola del “padre prodigo”. Ma forse anche per un altro motivo il titolo “figliol prodigo” non era dei più indovinati o forse anche scorretto: perché spezzava la parabola. La concludeva con il ritorno di un figlio. Usciva di scena il figlio maggiore, che era quello per il quale Gesù aveva raccontato la parabola.

La parabola era nata sull’onda dello scandalo dato dal comportamento altamente trasgressivo di Gesù: accoglieva pubblicani e peccatori, mangiava con loro, era uno scandalo.

E lui racconta la parabola. Come a dire: siete della razza del figlio maggiore, il figlio che contesta la misericordia e si rifiuta di entrare alla festa.

Era rimasto, quel figlio, una vita con il padre e non era stato sfiorato dal mistero più profondo. Nel suo cuore aveva ristretto la figura del padre nella figura di un “padrone”, aveva abbassato l’amore del padre al livello arido delle prestazioni: ti amo in base alle prestazioni, se lavori tanto ti amo tanto, se lavori meno ti amo meno, se non lavori non ti amo. Un amore secondo i meriti.

La parabola, scritta in modo particolare per il figlio maggiore, nella nostra predicazione è stata per lo più spezzata: il commento finiva al ritorno del “prodigo”. E per lo più il tono era come di chi dice: “hai messo finalmente la testa a posto”. Il figlio minore ha sì messo la testa in un “posto” fino ad allora a lui sconosciuto, il luogo della misericordia del padre. È il figlio maggiore che fatica, fatica e resiste a mettere la testa a posto: nel “posto” della misericordia.

La parabola è scritta per coloro che si scandalizzano della misericordia. Dove siamo noi oggi? La comunità ecclesiale, per come oggi appare, scandalizza, come Gesù, per la sua accoglienza a 360 gradi? È sbilanciata come Gesù all’esterno, su quelli che comunemente sono considerati “fuori” o non ha l’aria supponente, così dura a morire, del fratello maggiore, quello che guarda in casa e non fuori, quello che sa chi è in comunione con Dio e chi non lo è, quello che è fermo alle prestazioni: a tanto tanto, a meno meno, quello che mette i puntini sugli ‘i’ e i paletti, quello che conosce tutto della casa, conosce tutti gli angoli della vita ecclesiale, parla come un curiale, ma non ha ancora scoperto l’angolo misterioso, il decisivo, l’angolo della misericordia.

Leggendo la parabola, ti rimane allora un sospetto: che proprio la fuga da casa sia l’occasione, l’occasione di grazia, per conoscere quello che ancora non avevi conosciuto, il volto vero di tuo padre. Fuggire, uccidere il padre per ritrovarlo?

Questo nostro tempo viene spesso raccontato da coloro che ne indagano le tendenze come il tempo dell’ ”uccisione del padre”. Padre da onorare o padre da uccidere?

Il padre con la sua paternità ti ricorda che la vita ti è stata data, viene da lontano, non ti sei fatto tu con le tue mani, il mondo non inizia oggi e sarebbe ingenua stoltezza ricominciare ogni giorno come se nessuno avesse pensato prima di te, amato prima di te, costruito e distrutto prima di te: prima di te il diluvio! In questo il padre è il simbolo di una vita da onorare.

Ma se c’è un’immagine di padre da salvaguardare, forse c’è anche un’immagine di padre da uccidere, il padre despota, il padre da cui liberarsi.

Dio Padre -scrive il Card. Martini- “non fa concorrenza all’uomo, alla sua libertà, al suo progetto emancipatorio. Il padre despota da cui liberarsi è un’immagine che spesso è stata trasferita su Dio: essa va giustamente rifiutata… Occorre ritornare al Padre che ci fa liberi e richiama a libertà, a quella figura che ci provoca a essere noi stessi, a costruire con responsabilità il nostro avvenire e che lo edifica con noi” (Ritorno al Padre di tutti, pag. 26).

Forse è venuto il tempo di chiederci non solo se oggi diciamo Dio, ma quale Dio oggi diciamo: il Dio della parabola o un altro Dio? Forse è venuto il tempo di chiederci quale immagine di Dio traspaia dalla nostra vita: l’immagine del Dio despota -credenti allineati, bastonati, dentro i confini di casa, pilotati- o l’immagine di un Dio che libera -credenti appassionati, “fuori misura”, fuori programma, capaci di scandalizzare come scandalizzava Gesù-. Tu per che cosa scandalizzi? Per la tua durezza o per la tua accoglienza?

Se non arrivi in fondo alla parabola, anche il ritorno a casa potrebbe essere equivocato come il ritorno al dovere senza fantasia, un ritorno nei ranghi.

Con l’immagine del ritorno -il ritorno al padre di tutti- il Card. Martini non vuole di certo suggerire il ritorno alla minorità, alla regressione infantile.

L’invito è invece a rifarci pellegrini. Pellegrino, icona dell’uomo e della donna in cammino, nel segno di un’ininterrotta scoperta. Di qui l’emozione dei due verbi del figlio minore: “alzarsi” e “andare”. Finché durano i verbi dura l’emozione. I due verbi, nel commento del Cardinale diventano parole da leggere e rileggere, di tanto in tanto lungo il cammino: “Alzarsi, andare vuol dire non lasciarsi prendere dalla nostalgia di un passato esistente solo nella nostra mente, né dalla seduzione di un presente in cui restar fermi nelle nostre piccole sicurezze o nel lamento sui nostri fallimenti.

Alzarsi, andare vuol dire accettare di essere sempre in ricerca, in ascolto dell’Altro, protesi verso l’incontro che ci sorprende e ci cambia, desiderosi finalmente di “obbedire”, in maniera adulta.

Alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza, “siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”: la frase -attribuita a Lutero morente- è non solo la confessione onesta del limite sperimentato, ma anche la dichiarazione di un progetto di vita che cerca fuori di sé, nell’Altro, nel Padre-Madre, nell’amore il senso della vita e della storia”.  (da un commento di don Angelo Casati – http://www.sullasoglia.it)

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