Il Burundi si è affacciato nella mia mente “con una certa pretesa di farsi conoscere” nella lontana primavera del 1996.
Fu allora che in un Convegno di Pax Chisti conobbi Renzo Petraglio.
Era stato invitato a farci la meditazione quotidiana con una “lettura non violenta” dell’ Antico Testamento. Questo modo di leggere l’Antico Testamento mi affascinò, così un giorno a pranzo mi sedetti al tavolo dov’era seduto Renzo, e gli chiesi se, quando avesse fatto altre letture di quel tipo, poteva inviarmene copia.
Mi disse che lui dal ’93 ogni estate andava in Burundi nel Centre Jeunesss Kamenge a Bujumbura, dove i Saveriani lo invitavano a fare questa educazione alla pace ai giovani Utu e Tutsi non solo con letture bibliche, ma anche con brani tratti da Corano, visto che tra i giovani del Centro c’erano cristiani e musulmani. Mi promise anche che mi avrebbe accontentata e si prese il mio indirizzo.
L’estate successiva mi arrivò un plico che conteneva non solo le letture ma anche un opuscolo con notizie del Centro, così cominciai a corrispondere con Claudio Marano , saveriano che tuttora dirige il CJK, anche lui una bellissima persona.
Nel 1999, per la prima volta, fui invitata ad andare in Burundi, ma quell’anno stavo per diventare per la prima volta nonna di ben due nipoti nel giro di 45 giorni, cosi dovetti rinviare a tempi più opportuni.
Successivamente, nel 2004, dopo che il Centro nel 2002 vinse un Nobel alternativo della Pace mi invitarono di nuovo. Là c’era ancora la guerra civile ed io avevo appena acceso un mutuo con assicurazione sulla vita che mi vietava di morire suicida o in un paese in guerra. Così dovetti rimandare ancora al compimento del mio settantesimo anno, allorquando terminava il mutuo. Finalmente l’estate scorsa ho potuto coronare il sogno tanto a lungo accarezzato.
L’esperienza fatta è stata per me molto forte: mi ha arricchito di emozioni e di contenuti in un modo che non avrei mai immaginato.
Una volta tornata, mi sono resa conto d’essere una persona diversa.
L’aver visto di persona quella realtà, l’aver vissuto con quegli splendidi giovani Hutu e Tutsi, burundesi, ruandesi,congolesi ed alcuni ragazzi del nord del mondo, che avevano deciso di condividere un pezzetto della loro vita con coetanei meno fortunati di loro, cristiani e musulmani, che partecipano ai campi di lavoro ed alla formazione, per prepararsi a costruire un mondo migliore, mi ha fatto comprendere ancora di più che anche io dovevo fare di più per il Centro affinché esso potesse continuare questa opera di pacificazione tra etnie, religioni e popoli diversi.
Ho compreso che quello che avevo fatto fino allo scorso anno non bastava!
Mi dovevo attivare, inventare qualcosa di nuovo fare conoscere il CJK a più e più persone, perchè si realizzasse il sogno di pace di tanti uomini e donne di buona volontà.
Il CJK per me rappresenta un “segno incarnato” della parabola del lievito, o della parabola del granellino di senape che Gesù racconta per rappresentare il Regno dei cieli. Nel cuore dell’Africa, un piccolo paese come il Burundi, che qualcuno -prima di me- ha definito “il cuore dell’Africa “ perchè esso stesso è a forma di cuore, potrebbe, se Dio vuole,divenire lievito per tutta l’Africa e per il mondo intero.
E penso che i sogni che gli uomini e le donne fanno, se sono secondo il cuore di Dio, finiscono con l’avverarsi.
Per dare più forza a questa mia convinzione voglio concludere con alcune parole di uno scritto che qualche anno fa mi mandò Renzo Petraglio e che mi piace condividere con voi:
“Pensando a questi sognatori e a queste sognatrici a me viene in mente quanto scriveva all’incirca 23 secoli fa, un ebreo. Era un anticonformista. Si faceva chiamare con un nome strano, Qohelet, che all’incirca vuol dire Uno, anzi Una del gruppo.
Qohelet scriveva:
getta il pane sulla superficie delle acque,
che – dopo molto tempo- lo ritroverai (Qo 11,1)
Questo imperativo che Qolhet rivolge a lettrici e lettori è assurdo: infatti il pane è da mangiare. Non lo si deve, non lo si può gettare sulla superficie delle acque, siano esse il debole fiotto del Nyabagere ( il torrente che separa i quartieri di Kamenge e Cibitoke dal quartiere di Ngangara a Bujumbura). Il pane non lo si può gettare nel Nyabagere e nemmeno nelle acque -enormi- del lago Tanganika o nelle onde del Mediterraneo dove molte e molti sognano di passare i prossimi mesi estivi.
Se l’imperativo di Qohelet è assurdo, ancor più assurda la motivazione che egli porta: com’è possibile ritrovare il pane gettato nelle acque? Come è possibile ritrovarlo addirittura dopo molto tempo?
Eppure l’imperativo di quell’ Uno o Una del gruppo non può essere privo di senso.
Anzi, probabilmente è più sensato di molti imperativi che i saggi hanno formulato – nella storia di ieri e di sempre- come inviti alla prudenza. In fondo, sembra dirci Qohelet, sognare l’impossibile è l’unica strada per sopravvivere, per dar senso alla storia: la tua storia personale e quella del mondo” (R. Petraglio)
Ed aggiungo un’ultima cosa per coloro che volessero mettere in pratica in qualche modo i suggerimenti datici da Riccardo Milano, nel libricino che ci è stato proposto per la Quaresima: qualora qualcuno volesse devolvere il suo 5 per mille a favore del CJK.
Vi informo che alcuni giovani di Pavia che ho conosciuto quest’estate al Centro hanno fondato una Onlus a tale scopo: IL “Gruppo Kemenge Pavia” il cui c.f. è: 96064670183.
Ed a questo punto vi dico grazie.
Rachele De Bonis
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