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San Marcello

Il Vangelo che abbiamo ricevuto: grazia e fatica di essere Chiesa oggi

Il testo sotto (già  proposto durante il campo famiglie di quest’anno e  a cura del nostro infaticabile donGi) sarà discusso nell’incontro della comunità di martedì 8 alle 20,30, in preparazione dell’incontro con la teologa fiorentina Serena Noceti di martedì 15 settembre prossimo (a brevissimo un post con maggiori dettagli).

La versione in PDF la potete trovare a questo indirizzo. Sotto invece, ho inserito qualche link  di approfondimento per chi ne avesse bisogno.

Buona giornata

Maria Grazia

***



S. Maria di Leuca – campo-famiglie 2009

In questo primo pomeriggio vorrei delimitare il tema attorno al quale si svolgeranno le nostre riflessioni di questi giorni. Esso riprende il tema dell’Assemblea di Firenze dello scorso 16 maggio, promossa da alcuni teologi, laici, comunità ecclesiali.

Qualcuno ha definito l’Assemblea di Firenze dei “cattolici del disagio” [pdf]. In essa infatti ha trovato voce non tanto il dissenso o la contestazione contro qualcuno (come è accaduto in altre stagioni della vita ecclesiale), quanto il disagio per “non vedere al centro della comune attenzione proprio il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri, ai peccatori, a quanti giacciono sotto il dominio del male, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge” (dalla lettera di invito), per una serie di posizioni che hanno segnato il cammino della Chiesa, in particolare italiana, negli ultimi anni: ci riferiamo alla vicenda di Welby e di Eluana Englaro, alla revoca della scomunica al Vescovo lefevriano Williamson e alla riedizione del Messale di San Pio V, ad alcune nomine episcopali in Polonia ed in Austria e alla scomunica alla bambina brasiliana rimasta incinta e che poi ha abortito.

Disagio che sta portando non pochi cristiani ad uno “scisma silenzioso”, a scegliere di abbandonare la Chiesa, o di restar e sulla soglia mentre stavano per entrarvi, come mi diceva un amico qualche mese fa. Un disagio che non può essere guarito col silenzio, ma col dialogo. Per questo una prima richiesta è quella di una Chiesa più sinodale, di un maggiore ascolto delle diverse voci che la compongono, soprattutto di quella laicale. Una espressione interessante di questo bisogno è stata l’iniziativa del quotidiano francese La croix di chiedere a diverse personalità del mondo cattolico, sia laici che ecclesiastici, “perché restare ancora nella Chiesa?” [pdf].

Vorrei ancora, prima di proporvi un lavoro di gruppo, riprendere alcuni punti della relazione di Enrico Peyretti e Ugo Rosemberg che, in apertura dell’Assemblea di Firenze, hanno riassunto gli oltre 40 contributi scritti pervenuti via internet.

Anzitutto essi sottolineano come in tutti i contributi ci sia “una omogeneità di spirito di fondo, che è lo spirito riconoscibile nell’invito “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”. E c’è franchezza, parresia cristiana, espressione di amore e sofferenza …”. E’ quella dichiarazione di amore alla Chiesa ripetuta due volte al punto 1, su cui non dobbiamo smettere di interrogarci seriamente, se veramente è all’origine della nostra azione e anche della nostra critica.

Una dichiarazione insolita come già ricordava il padre De Lubac nella sua avvertenza alla nuova edizione del 1967 del suo “Meditazione sulla Chiesa”, pubblicato nel 1952, proprio mentre veniva ingiustamente privato dell’insegnamento da quella Chiesa che amava (nel 1958 sarà riabilitato e poi per volontà di papa Giovanni XXIII ebbe parte attiva al Concilio):

“Non è di moda, negli ambienti che creano l’opinione, osar dire ad alta voce che si ama la Chiesa di Cristo … E’ dar prova di infantilismo … ma noi temiamo meno lo scherno di certi adulti che lo sguardo stupito di uno solo di quei piccoli (non si tratta di intelligenza) cui è promesso il Regno dei cieli”.

Ricordo anche quanto diceva fr. Roger Schutz in una delle mie prime visite a Taizè, riprendendo una preghiera liturgica:

“Oggi molti sembrano dire piuttosto: Signore, non guardare ai peccati della tua Chiesa, ma alla mia fede!”.

Noi amiamo questa Chiesa, con tutti i suoi limiti, perché non possiamo opporre una Chiesa visibile a una tutta interiore e spirituale:

“Con forza sempre crescente, la sua bellezza ci ha rapiti. E tuttavia non l’abbiamo contemplata come in sogno. Non abbiamo cercato una specie di evasione, fuori della banalità quotidiana o delle tristezze dell’esistenza, in una visione irreale, fluttuando al di sopra delle nubi. Questa patria della libertà, Madre nostra, ci è apparsa nella sua regale maestà e nel suo celeste splendore, nel cuore stesso della nostra realtà terrestre, in mezzo alle opacità e alle inevitabili pesantezze che la sua missione tra gli uomini comporta. L’abbiamo amata – di sempre più grande amore – così com’è non soltanto nella sua idea, ma nella sua storia, e più particolarmente così come essa, oggi, ci appare” (H. De Lubac, dalla prefazione a “Meditazioni ..”).

Perché essa ci ha generati alla fede, ci dona il Vangelo e il perdono di Dio. Proprio negli anni in cui il p. De Lubac viene allontanato da quella Chiesa che ama, egli scrive:

“Se anche i sommovimenti e le tempeste che infuriano contro di me dall’esterno sconvolgessero la mia anima fino in fondo, non possono però nulla contro le cose grandi ed essenziali che costituiscono ogni attimo della nostra vita. La Chiesa è sempre qui, maternamente, con i suoi Sacramenti e con la sua preghiera, con il Vangelo che essa ci tramanda intatto; con i suoi santi, che ci circondano; in breve: con Gesù Cristo, presente in mezzo a noi, e che essa offre a noi ancor più nel momento in cui ci fa soffrire … Che male può mai fare tutto il resto di fronte a simili azioni di bontà?” (Da una lettera al padre Charmot sj del 9 settembre 1950, citata in R. Voderholzer, “Incontro con Henri de Lubac, p.48; cfr. anche la testimonianza di Y. Congar, “Una Chiesa contestata”, p.117).

Veramente ogni cattolico può dire con Paul Claudel:

“Sia sempre benedetta questa grande Madre augusta, sulle cui ginocchia ho tutto appreso”.

Ma senza ingenuità e senza chiudere gli occhi sulle sue infedeltà.

“Non si tratta di chiudere volutamente gli occhi di fronte ad insufficienze di ogni genere, sempre troppo reali; non si tratta di non soffrirne: l’indifferenza potrebbe essere peggiore di una emozione troppo viva. La lealtà totale e fervente della nostra adesione non esige da noi una ammirazione puerile per tutto ciò che può esistere, o può essere pensato e fatto all’interno della Chiesa. Questa Sposa di Cristo, che il suo Sposo ha voluto perfetta, santa, immacolata, non è tale che nel suo principio …” (o.c.p.201). Quando, nei suoi figli, la Chiesa si riveste di umiltà, è assai più attraente di quando domina in essi la preoccupazione troppo umana della rispettabilità. Jacques Maritain osservava un giorno, non senza una legittima sfumatura di ironia, che a molti cristiani del nostro tempo ogni confessione delle nostre deficienze sembra in qualche modo indecente … Gli antichi Ebrei e persino i Niniviti non facevano tanti complimenti. E i santi dei secoli passati ancora meno” (o.c., p.198).

Peyretti e Rosemberg riferiscono poi quali sono le cause principali del disagio (nn.4-19). In una parola potremmo riassumerle nel rischio di trasformare “la religione cattolica in una religione civile” (n.8), in un “neo-cristianesimo senza Parola, senza Vangelo, ridotto ad identità culturale o perfino geopolitica, questo cristianesimo senza stranieri né samaritane e prostitute, senza pubblicani né Zaccheo, senza adultere né poveri, dunque senza riscatto; ebbene questo cristianesimo post-cristiano e senza speranza è il vero problema (n.6); o, detto altrimenti, nel tentativo di “mettere il Vangelo al riparo del potere” (n.4), e di trasformare la Chiesa in una agenzia morale (n.7). Il disagio nasce dunque più che sui temi sociali, pur presenti, sulla centralità del Vangelo nel modo di essere Chiesa e nel rapportarsi di questa agli uomini e alle donne del nostro tempo.Insomma ci sono oggi molti militanti ma pochi discepoli del Signore. E’ questa una tentazione da cui già il padre De Lubac nel libro citato metteva in guardia:

“Non mancheranno mai coloro che sono pronti ad identificare così perfettamente la loro causa con quella della Chiesa, da finire per ridurre in buona fede la causa della Chiesa alla loro. Non immaginano neppure che per essere servi veramente fedeli dovrebbero modificare parecchie cose in se stessi. Vogliono servire la Chiesa, ma intanto la mettono al loro servizio… La Chiesa in pratica è per essi un certo ordine di cose col quale si sono familiarizzati e di cui vivono. E’ un dato tipo di civiltà, un certo numero di principi, un determinato complesso di valori che la sua influenza ha più o meno cristianizzati ma che, in gran parte, continuano a rimanere umani. Tutto ciò che turba quest’ordine o compromette questo equilibrio, tutto ciò che li preoccupa o più semplicemente li stupisce è ai loro occhi un attentato contro l’istituzione divina. Non sempre, in simili confusioni, si tratta di quelle forme volgari di clericalismo che commisurano l’onore reso a Dio con i vantaggi accordati ai suoi ministri, o che misurano il progresso del dominio di Dio sulle anime o del regno sociale di Gesù Cristo in base all’influenza, occulta o palese, del clero sull’andamento degli affari profani. Tutto può essere nobilmente concepito. Così il grande Bossuet, nei suoi ultimi anni, ricalcava tutto l’ordine cattolico su un certo ordine Luigi XIV … In tutti i campi in cui impegnò la lotta egli fu apparentemente vincitore; ma vinse in maniera tale che fu l’irreligione ad avvantaggiarsene. …Non rinnegheremo in tal modo l’intransigenza della fede; al contrario solo così le rimarremo fedeli fino in fondo. Non si tratta di attenuare il nostro zelo per la verità cattolica, ma di purificarlo. Stiamo attenti a non essere di quegli “uomini carnali”, come ce ne furono fin dalla prima generazione cristiana, che, considerando la Chiesa come un patrimonio di famiglia, impedivano praticamente agli Apostoli di annunciare il Vangelo ai Gentili. Noi ci esporremmo, in tal caso, ad un infortunio anche peggiore: quello di collaborare con l’irreligiosità militante, facilitandole il compito propostosi di relegare la Chiesa e la sua dottrina fra le cose morte” (H. De Lubac, o.c. pp.193-196). Lascio a voi di continuare la riflessione sul testo di Peyretti e Rosemberg e concludo con alcune domande sulle quali possiamo confrontarci nel lavoro di gruppo:
  1. Quali sono le grazie e le fatiche che sperimento nel mio essere Chiesa?

  2. Perché resto nella Chiesa? O forse anch’io sono scivolato sulla soglia se non fuori di essa?

  3. Quali sono le piaghe della Chiesa oggi, come io vi contribuisco?

don Gianni De Robertis

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