In “l’Unità” del 14 marzo 2013
«La chiesa è chiamata da Cristo stesso a continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno». La conclusione inattesa del pontificato di Benedetto XVI, nell’inedita forma della rinuncia, e le suggestioni che da più parti sono venute per delineare l’agenda del nuovo pontefice hanno riportato in primo piano quell’istanza di riforma che aveva segnato fin dall’inizio il Vaticano II e che le parole del documento conciliare sull’ecumenismo qui riportate esprimono. Non appare sufficiente, infatti, ribadire l’appello a una conversione dei cuori; è necessario un cambiamento strutturale, che investa l’istituzione ecclesiale nel suo complesso e delinei secondo prospettive nuove le forme di partecipazione e di governo.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le espressioni di disagio nella chiesa; sono stati stilati lunghi cahiers de doleance, dettagliati elenchi delle «piaghe della chiesa», sono state raccolte milioni di firme per petizioni che suggerivano vie di rinnovamento per diversi settori pastorali, nella percezione che tante intuizioni conciliari fossero state abbandonate o mitigate nella loro dirompente forza di cambiamento. Lo scenario nuovo di una chiesa divenuta mondiale, la crisi di rilevanza e di appartenenza che segna il cristianesimo in Occidente, il distacco dal paradigma della societas christiana, l’abbandono definitivo di forme pre-moderne di pensiero e di organizzazione sociale, motivano la necessità di una trasformazione strutturale complessiva e ne tracciano i profili.
Due i piani in gioco: la relazione tra chiese locali e chiesa universale; le forme di partecipazione attiva di tutti i cristiani alla vita della chiesa. Il Vaticano II ha consegnato molte intuizioni innovative proprio a questo riguardo, ma non si è poi affrontato l’adeguamento complessivo delle istituzioni, in grado di attuare la nuova visione ecclesiologica. In primo luogo la riforma dovrà toccare l’articolazione tra centro e periferia; il Concilio ha valorizzato le diocesi e ha pensato alla chiesa universale come comunione di chiese locali, ma nel post-concilio si è assistito a un forte processo di centralizzazione romana, intorno alla figura del papa (sempre più «visibile», complice il processo “iconografico” massmediale) e a una curia romana in grado di esercitare un’influenza e un controllo capillari. La politica perseguita nelle nomine episcopali ha contribuito a questo stato di cose. È necessario pensare a un modello nuovo che valorizzi le peculiarità delle chiese locali e riconosca loro una certa autonomia in alcuni settori, promuova un’unità che si dà nella pluralità e varietà delle culture e non per omogeneità e uniformizzazione, come è stato per secoli. È forse giunto il momento di riprendere un’idea emersa durante il Vaticano II di un «senato dei vescovi» (o meglio forse di un «collegio di patriarchi» proveniente da diversi continenti) che coadiuvi il papa nell’esercizio del suo ministero per l’unità della chiesa.
Per quanto riguarda i soggetti, il Vaticano II è il primo concilio che ha dedicato uno specifico documento ai laici, ma a distanza di 50 anni mancano istituzioni e strutture nelle quali la voce di tutti i battezzati possa risuonare, autorevole, riconosciuta come necessaria per comprendere il vangelo e riesprimerne le istanze secondo i linguaggi del nostro tempo. La coscienza formata e adulta non ha sempre spazio di cittadinanza nella chiesa. La questione femminile è poi largamente sottovalutata: la chiesa cattolica porta ancora segni di patriarcato e androcentrismo; mancano una serena riflessione sulle forme di ministerialità delle donne (un confronto – ad esempio – sulla possibilità di donne diacono, che l’antichità ha conosciuto). La forma delle parrocchie, che rispecchia il modello definito dal Concilio di Trento per un contesto socio-culturale ed ecclesiale molto diverso dal nostro, dovrà a breve essere sostanzialmente ripensata, a partire da una reale corresponsabilità di preti e laici e per favorire modalità diverse di appartenenza, rispondenti alla sensibilità di oggi, meno legata al territorio di residenza e più attenta alle relazioni amicali e al senso di comunità. Last but not least, è urgente ripensare la formazione del clero: il seminario è una geniale invenzione del Concilio di Trento, ma forma «preti tridentini», adeguati a una forma di chiesa che oggi non appare più consona né alla visione del Vaticano II né rispondente al mutato contesto culturale.
«Collegialità» e «sinodalità», cioè capacità di camminare insieme, sono allora le due parole chiave per il pontificato che si apre; in entrambi i casi, a tutti i livelli, è in gioco la capacità di coniugare pluralità, di persone e di culture, e unità, in un soggetto collettivo che non sia omologato né omologante. Sono parole al cuore dell’agenda per il nuovo papa, ma sono anche per tanti aspetti le sfide che il nostro mondo vive, stretto tra il riaffermarsi delle identità locali e la crescente interdipendenza politica ed economica, segnato da una crisi della rappresentanza politica e da una sfiducia nelle mediazioni. Una complessità alla quale la chiesa non può sottrarsi con la logica semplificante di un potere forte, che dal centro controlli ogni settore con procedure standardizzate e strutture burocratizzate; una complessità da vivere invece articolando processi aperti di formazione e di partecipazione, a diversi livelli e secondo diverse competenze, a partire sempre dall’essenziale, che è per i cristiani il vangelo di Gesù.
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