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San Marcello

Morandi e Amendola

Morandi, né Gianni del latte e della mamma, né tantomeno Giorgio delle nature morte.

Amendola, né Giovanni, politico comunista, né Ferruccio, doppiatore cinetelevisivo.

Ma purtroppo Morandi come un ponte tanto ardito quanto sconsiderato, crollato in una nuvola di polvere mortale che si è trascinato dentro dentro 43 vite ignare. E purtroppo Amendola come l’ennesimo sforzo barese di inseguire una idea di sviluppo che corre su binari fatti di asfalto, cemento, motori e lamiere. E io temo altrettanta nuvola mortifera.

In uno strano ma comprensibile corto circuito questi due fantasmi nella mia mente vanno a braccetto verso una fine ingloriosa che se implicasse solo la loro dissoluzione sarebbe poco dannosa ma se, come il ferragosto genovese testimonia, seminano morte, disperazione, disagi, spese e conflitti, oltre che il solito sciacallagio politico (di quella con la P minuscola minuscola), allora il prezzo è impagabile, impossibile, improponibile.

Il crollo del ponte di Genova è ai miei occhi allibiti ma non impreparati la plastica metafora del fallimento o almeno della data di scadenza di un idea di sviluppo tecnologico, meccanico, lineare e capitalistico che vede l’alba al tramonto di una guerra, seconda e mondiale. Il ponte Morandi, con le sue arditezze era, già hainoi era, uno tra i simboli di una epoca che di boom ora ha solo il suono sinistro. Dopo le carestie, le devastazioni, le morti di una guerra senza limiti c’era tutta la voglia e la necessità di rilanciare, di buttare il cuore oltre le paure e lo si è fatto senza però considerare quanto proprio quella guerra poteva insegnare. Il cemento armato, che già solo il nome dovrebbe far riflettere, è stato una delle armi più devastanti di questa post-guerra. Di cemento armato si è nutrito tutto lo pseudo sviluppo che dagli anni ’60 in poi ha invaso le nostre vite. Ma il cemento seppure armato scade, nato per essere eterno è in realtà molto più effimero di quanto ci hanno voluto far credere, anche se della migliore specie, non parliamo poi laddove le speculazioni lo degradano per ricavarne colpevolmente lucri criminali. Non era il caso del Morandi, eppure anche lì ha mostrato il suo tallone d’Achille. Complici nella catastrofe sono incurie, connivenze mafiose, interessi miliardari, ma questo si sa, allignano in ogni campo, in questo caso ciò che è crollato è l’idea che lo sviluppo passi per la volontà tutta antropocentrica, occidentale e capitalistica, di voler piegare ogni lembo di terra, e non solo, alle proprie convenienze. E tutto in nome di un ideale di sviluppo contrabbandato come unico, irreversibile, immantinente, che ad opporvicisi si fa la figura di medievali oscurantisti, senza neanche immaginare quanta visionarietà positiva c’era in quelle epoche ora scritte nel lato dei cattivi in lavagna. Se fossimo un popolo di ben-pensanti, ovvero di esseri senzienti che pensano bene e per il bene, rifletteremmo a lungo su quanto accaduto, e già da molti oscurantisti preannunciato, per evitare il ripetersi. E questo non revocando concessioni, lanciando anatemi e strali contro il fantoccio-nemico di turno, ma sedendosi con calma, chiamando tutti intorno ad un tavolo, meglio se imbandito, o ad un fuoco, prendendosi il giusto tempo e immaginando un futuro in cui queste disgrazie non debbano neanche essere immaginabili. Se fossimo una specie che si occupa della propria sopravvivenza a lungo periodo, non impegnata solo a ricucire gli strappi della punta delle proprie pantofole sdrucite, allora impareremmo da questo errore, come sempre si deve fare, per arricchirci e prosperare. Non è IL colpevole che dobbiamo ora ricercare, ma l’opportunità che un evento come questo ci offre. Duecento metri di autostrada in picchiata per 45 metri come un rapace impazzito stanno lì a testimoniare che di cemento e asfalto non ci si può nutrire a lungo, che sviluppo non fa rima con crescita, che progredire non significa violare. La riflessione da fare, questa sì profonda ma necessaria, imporrebbe una riscrittura delle metriche con cui soppesiamo il nostro futuro, liberandolo dalla presunta necessità di produrre sempre e solo più ricchezza (economica) per definirci progrediti. Un pensiero onesto e maturo dovrebbe tentare di mettere in dubbio le affermazioni roboanti delle necessità impellenti di evolvere sempre e solo nella direzione dello sfruttamento del territorio, e con esso delle persone che lo abitano, laddove ci sarebbe bisogno di una nuova idea di crescita. Una rivoluzione antropologica e ideale capace di immaginarci non centro insostituibile di un universo concreto fatto di economia e industria, ma capace di cogliere i tempi, i ritmi, le incongruenze di un intorno complesso che non si lascia normalizzare da un nastro di asfalto, sia esso ben ancorato al suolo o slanciato nel cielo su arditi piloni in materiale innaturale anch’esso. Un clima che non risponde più alle nostre certezze e che ci mostra il suo lato più selvatico, un pianeta che seppure continua ad accoglierci cerca di farci capire quanto e come ne stà soffrendo, un mare tanto generoso quanto colpevolmente avvelenato, e potrei continuare a lunghissimo, tutti questi sono segnali che, secondo me, si possono condensare nel cedimento degli stralli del ponte sul torrente Polcevera, in quella Liguria dolce e gentile che tanto alla Puglia assomiglia per conformazione geografica, per soavità di clima, per generosità d’animo e anzi in questo forse i liguri ci sopravanzano.

E in questo tragitto dalla Liguria alla puglia ora arriviamo ad Amendola, anzi in Via Amendola, nella mia città, laddove si sta realizzando un’opera tanto agognata quanto per me inutile e anzi dannosa, proprio per quanto sino ad ora raccontato. Opera che prevede una dilatazione delle carreggiate attuali sino ad otto corsie, comprendendo le viabilità secondarie, degne di una superautostrada, oltre le ormai immancabili rotatorie, nuove giostre senza biglietto. Certo Via Amendola non crollerà mai, è già per terra, ma il suo portato di morte è garantito, è scritto nell’incremento di movimento veicolare previsto e salutato come necessario e benigno per la città. È implicito nell’avvelenamento d’aria che questo fiume in piena convoglierà sin nel centro urbano per sfociare poi in mille rigagnoli mefitici che non solo faranno marcire angoli di città, ma che ne intaseranno ulteriormente il già faticoso (eufemismo benevolente) traffico. E allora giù a cercare rimedi, cerottini su una piaga verminosa che bastava non alimentare per non doverne pagare le conseguenze. Chi millanta questo come un segnale di crescita della sua/nostra città ha evidentemente una idea di progresso che non coincide con la mia, una visione, per me, miope fatta di gestione e amministrazione inerziale, dedita solo a guidare alla meno peggio un percorso scritto in epoche ormai defunte, in cui il bisogno di crescere si misurava in chilometri di asfalto e tonnellate di cemento, salvo poi vederle dissolversi come neve al sole o, come diremo dal 14 agosto in poi, come il Morandi di Genova. “Nun ce vòl a zingara pè nduvinà”, recita la più nota tammurriata che tutti abbiamo in qualche modo danzato, per intravvedere le conseguenze di questo squarcio nella città, magari prodromoco ad altri, credo che basti un po’ di buon senso, ma quello vero, onesto capace anche di re-inventare un presente che disegni un futuro se non migliore almeno possibile, per comprendere che aprire in maniera così esagerata il rubinetto del traffico della città non farà che allagare le bacinelle con cui ad oggi possiamo raccoglierne le ondate. A meno che… già a meno che a questo non si faccia seguire un bel e foraggiato programma di incremento di servizi alla viabilità su asfalto così da radere al suolo ogni possibile idea di nuova vita per Bari e noi suoi abitanti.

Nel suo “Mondo in mi 7^” Celentano già previsionava questi scenari e li giudicava. Era il 1969, allora si potevano dire queste cose, seppure in forma di canzonetta, ma poi non solo, perché la sensibilità c’era, come credo ci sia tuttora, la differenza è che oggi queste consapevolezze sono inebetite da un clima di emergenza e paura costante che relegano tali Ideali nella nicchia polverosa delle chimere. Altro chè! Il Morandi è venuto giù, altrettante strutture in tutto il mondo civilizzato crollano o mostrano criticità irrisolvibili eppure noi “contuiamo a costruire, case su case, catrame e cemento…

E allora se riuscissimo a comprendere quello che Morandi e Amendola hanno da insegnarci potremmo smetterla di inseguire una lepre che mai raggiungeremo come levrieri impazziti in una corsa senza fine e riprenderemmo il contatto con la/le vite reali fatte anche di lentezze, bellezze, rallentamenti e incertezze, cominceremmo ad alimentare quei dubbi che soli mettono in moto le creatività contro le granitiche certezze che tutto appiattiscono.

Vanni De Giosa

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