Oggi ho visto la foto di Gino Strada e sotto scritto R.I.P. ho pensato fosse stato un errore, non poteva essere!!!!! Spesso pubblicano fake news, invece facendo un'ulteriore ricerca mi sono accorta che era vero. Ho sentito parlare in modo più approfondito di lui quando ho partecipato a un incontro di Emergency svoltosi nella nostra parrocchia, in quel momento ho capito perchè si batteva tanto contro la guerra, lui ha vissuto molte volte quella tragedia e sapeva benissimo che chi ne subisce le conseguenze sono sempre i bambini e la popolazione. Lui ha curato tanti che hanno perso gambe, braccia, occhi, tanto spargimento di sangue e bambini orfani che perdendo i genitori, non sanno più con chi vivere. Ma chi le fa le guerre non se ne preoccupa, perchè dà solo ordini, non vive queste catastrofi, non è la sua casa, la sua azienda che viene abbattuta, è a migliaia di chilometri che avviene. Proprio poco fa ho visto una sua intervista dove diceva che le persone devono capire che i problemi non si risolvono ammazzando gli altri.
Vorrei riportare una lettera che Gino scrisse da Kabul il 16 febbraio 2003:
"Di questi tempi si sente spesso discorrere di «scontro di civiltà», e credo che ciò sia vero.
Non nel senso che due mondi e due culture, quelli occidentali e quelli islamici, siano entrati in rotta di collisione: questo è del tutto falso. Ad essere in crisi è, piuttosto, l’idea stessa di «civiltà», o meglio la nostra idea di civiltà.
È come se, in una nuova Macondo, non riconoscessimo più i principî, i concetti, perfino le parole. L’occupazione militare di un paese sovrano diventa missione di «peace-keeping», l’assassinio di cinquemila civili afgani sotto le bombe – ero in Afghanistan in quel periodo – si trasforma in «guerra al terrorismo». Cinquemila esseri umani spariti nel nulla, «effetti collaterali», cavie da laboratorio.
Non ci deve sorprendere il disagio che proviamo, né la nostra spaventosa capacità di digerire ogni orrore della guerra. È frutto di una prolungata e puntuale opera di condizionamento dei nostri cervelli, una ferita prodotta da «un’arma» nuova e micidiale: l’informazione.
Un’arma di «distrazione» di massa. Il mio mestiere di chirurgo mi ha portato a vivere in mezzo alle guerre negli ultimi 15 anni, in Africa, in Asia, in America latina, perfino nella nostra Europa. Forse questo mi rende refrattario alla manipolazione, almeno sulla guerra. Perché quella che ho visto in molti paesi non c’entra niente con la favola che ho sentito raccontare da giornali e televisioni: la guerra che ristabilisce diritti umani, la guerra che porta la pace, la guerra che libera le donne. Non ci sono, non esistono. Non c’è guerra umanitaria, non può esserci uccisione degli uomini in nome dell’uomo.
Facciamo la guerra? A chi? La guerra si fa al nemico, lo si colpisce il più duro possibile. Ho visto il nemico sconfitto, annientato. Bambini fatti a pezzi dalle bombe e dalle mine antiuomo, o lasciati spegnere da malattie diventate incurabili per l’embargo alle medicine. Loro sono stati colpiti, loro sono stati il nostro nemico. Per qualcuno di noi – cittadini del nostro stesso pianeta – sono solo «effetti», non esseri umani. Mi spaventa solo lo scriverlo.
Il nemico «ufficiale» invece, quello che non abbiamo colpito, è sempre lì. È il mostro, o il mostro di turno, il feroce dittatore che chiamavamo presidente finché eravamo noi ad armarlo. Nell’ultima metà del secolo scorso abbiamo assistito a un rito macabro: in tutti i conflitti decisi da politici e generali, su dieci morti, nove sono stati civili. Un dato statistico inoppugnabile.
Che orrendo gioco è questo? Perché molti nostri «governanti» ci stanno mentendo, e ci propongono la guerra per difendere «la nostra sicurezza»? La sicurezza di noi tutti, cittadini del pianeta, dipende invece – lo sappiamo benissimo – dalla nostra capacità di mettere al bando la guerra, di farla sparire dalla faccia della Terra, di lottare contro la guerra con forza, come stiamo facendo per vincere il cancro.
È un compito difficile ma improrogabile che spetta a noi, donne e uomini di questo inizio di millennio. Dobbiamo riuscirci, e in tempi brevi, perché le armi di distruzione di massa, anche quelle progettate «per la nostra sicurezza», rischiano di distruggerci e di consegnare un mondo inospitale alle generazioni future. Come siamo potuti arrivare fin qui?
Se centinaia di milioni di noi muoiono ogni anno di fame e di guerra, di malattia e di povertà, se siamo arrivati al punto che la guerra – che le famiglie europee hanno ben conosciuto – ci viene offerta come condizione normale di vita, ciò è potuto accadere solo perché nel mondo c’è poca democrazia, molto poca. Certo è responsabilità di molti, a cominciare da chi non si è mai preoccupato di quel che gli succedeva intorno. Mancanza di partecipazione, disinteresse alla politica. Non ci siamo preoccupati che la politica del paese militarmente più forte fosse decisa da elezioni finanziate per tre miliardi di dollari dalle varie «corporation», e le corporation hanno fatto il loro lavoro. Ciascuna lobby ci ha indicato il «suo» politico, non il nostro.
Ci presentano due candidati, entrambi loro, e noi scegliamo. O meglio, come è successo nelle ultime elezioni Usa, il 30 per cento della popolazione sceglie e alla fine la Corte Suprema dichiara il vincitore senza passare per la conta dei voti. Se davvero chi governa esprimesse, rappresentasse il volere del popolo, l’Europa non sarebbe lacerata com’è. I popoli dell’Europa, la grande maggioranza dei cittadini europei, non vogliono la guerra all’Iraq. Anzi, non vogliono più nessuna guerra: la ritengono una barbarie, contraria all’etica e alla ragione umana.
Eppure alcuni governanti non considerano affatto l’opinione dei loro governati – tantomeno si sognano di indire consultazioni popolari – e vogliono portare il paese in guerra contro la volontà dei cittadini. Magari violando, come è già successo in Italia ad opera di governi di centro-sinistra e di centro-destra, la stessa Costituzione. In occasione della guerra all’Afghanistan, il 92 per cento del parlamento italiano ha votato per la guerra, cioè contro la Costituzione del proprio paese. Un esempio che ben chiarisce quanto grande sia il bisogno di democrazia, soprattutto di questi tempi. Gli Stati Uniti sono lì a dimostrare quanto la democrazia faccia a pugni con la guerra, quanto sia incompatibile.
I cittadini di quel paese stanno pagando un prezzo enorme: possono venire arrestati, interrogati con le moderne tecnologie, perfino giustiziati, senza passare da un tribunale, senza diritto a una difesa. È la nuova legge, che seppellisce la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Quant’altra democrazia ha già macinato nel mondo il bellicismo della giunta petrolifera al potere negli Usa? Diritto internazionale, accordo di Kyoto, Corte penale, Convenzioni di Ginevra, autonomia delle Nazioni Unite… Io mi sento solidale con il popolo statunitense, e sono contrario a quel «governo», il loro, che annienta persino la libertà dei propri cittadini, che agisce «contro il suo stesso popolo». E credo che essere contrari alla politica di George Bush e dei suoi amici sia un imperativo morale per tutte le persone per bene che abitano il pianeta.
Perché la politica in quel paese – e non solo in quello, ahimè – è stata usurpata da lobby pronte «a colpire» se vedranno «minacciati» i loro interessi, che spacciano per «interessi nazionali». Sono quegli interessi che oggi dettano la politica. La politica non è più cosa per cittadini, non deve più sforzarsi di migliorare la cosa pubblica e il nostro vivere associati. Oggi la politica serve gli interessi privati dei «Signori della Politica», di chi la finanzia e la controlla. Che sono anche i Signori della Guerra.
Hanno scelto la guerra. Perché fa aumentare vertiginosamente i loro conti correnti, ma soprattutto perché l’uso illimitato e indiscriminato della forza è l’unico mezzo che hanno ormai a disposizione per mantenere la situazione attuale, quella che vede meno del 20 per cento degli uomini possedere più dell’80 per cento delle ricchezze del mondo. Le armi per mantenere ad ogni costo i privilegi di pochi. Un ritorno al passato, nella storia dell’uomo, altro che new economy.
Questa è la vera guerra mai dichiarata: la guerra ai poveri del mondo, agli emarginati, agli sfruttati, ai deboli, ai diversi, la guerra a tutti gli «spendibili», vittime designate dei nostri consumi.
In molti hanno trovato il coraggio di una ribellione morale e si rifiutano di essere complici di chi pensa, dopo averli spogliati di tutti i loro averi, di eliminare i poveri anziché la povertà. Mai come oggi il mondo è stato percorso da una voglia di cambiamento così forte, mai si erano visti tanti milioni di persone mobilitarsi per la pace. Chiedono pace. E hanno voglia di giustizia, non di Guantanamo. Hanno voglia di diritti, per tutti, magari perché nella loro umanità residua ancora riescono a sentirsi meglio se nessuno muore di fame intorno a loro, anche se a migliaia di chilometri. Hanno voglia di un mondo più umano, più giusto, più solidale, un mondo di donne e uomini «liberi ed eguali in dignità e diritti». Perché ancora credono che quell’«effetto collaterale», cui nessuno porterà un fiore né una coccarda, abbia in realtà una faccia e un nome, una storia e degli affetti. Insomma credono che sia uno di noi, e che sia un valore per tutti che lui continui ad esistere. E credono che la vita umana, di ciascuno di noi, sia un valore, un fine, e che non possa mai essere ridotta a un mezzo, assoggettabile o addirittura spendibile, sull’altare della finanza o del mercato, o della politica. È l’etica – ritengono – che deve guidare la politica, non viceversa.
Utopia, pacifismo infantile? Assolutamente no. Anzi, un progetto in via di realizzazione. Il 15 febbraio i cittadini del mondo hanno chiesto pace, e i governanti non potranno girarsi dall’altra parte. L’arma di «distrazione» di massa si è inceppata, i cittadini hanno ricominciato a capire il senso delle parole. Prima fra tutte, «democrazia»: non sarà più permesso ai governi di dichiarare guerre a nome dei popoli. Il mondo non sarà più lo stesso, dopo il 15 febbraio.
Kabul, 16 febbraio 2003"
Spero con tutto il cuore che diffondano ciò che ha insegnato e che diventino sempre di più quelli che collaborano per i suoi ideali.
Maria
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