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San Marcello

Una vicinanza che non è “a costo zero”

Grazie ad un articolo di Claudio Imprudente, ho scoperto che la mostra  Alla luce della Croce. Arte antica e contemporanea a confronto – ospitata presso la Galleria d’Arte Moderna “Lecaro” di Bologna – sarà ancora aperta al pubblico fino alla fine di Ottobre. So che per noi è un po’ fuori mano ma… non si sa mai! 😉


Quello che però vi volevo segnalare sono le riflessioni di Claudio sul “peso specifico” dell’handicap, a partire dalla rivisitazione artistica della Via Crucis realizzata da Nicola Samorì. Nel suo articolo si legge:

Una delle stazioni rappresentate della Via Crucis era dedicata al passaggio della croce da Gesù a Simone di Cirene. I Vangeli non si dilungano molto su questa figura, non aggiungono dettagli salienti, né raccontano di un dialogo diretto o un confronto tra Gesù e Simone stesso. Anzi, quest’ultimo (descritto solo come proveniente “dalla campagna” e “padre di Alessandro e Rufo” ) viene “costretto” a portare la croce di Gesù, non è lui a proporsi. Ma noi, che siamo credenti “ostinati”, leggiamo qualcosa anche là dove non è scritto e una volontà anche quando non è espressa. Perché gli evangelisti fanno un riferimento a questo personaggio senza inquadrare meglio la sua presenza? Perché raccontare che Gesù non è riuscito a trasportare fino al Gòlgota la sua croce da solo e mostrare la sua “debolezza” fino a questo livello, trascurando poi ogni dettaglio della persona cui è stato imposto l’aiuto? Svista narrativa degli evangelisti? Scarsa attenzione di chi ha deciso che i Vangeli canonici dovessero essere quelli? Dubitando di queste interpretazioni minimaliste, il cenno a Simone serve a dare alla dimensione umana del divino un senso di condivisione, di partecipazione. Dio è con noi, ma non è una vicinanza “a costo zero”, né Dio vuole che sia tale. Non è una concessione, è, piuttosto, un invito al cambiamento e alla crescita. Ma c’è un elemento in più: nel momento in cui di Gesù vengono in primo piano i dati terreni, ecco che tra questi emerge con forza la necessità di condividere, di spartire il peso specifico delle cose. Di che cosa, in questo caso? Dell’handicap, del destino, della croce.

Mi ha colpito molto quella che è una riflessione sull’handicap vero e proprio e non sul deficit che “categorizza” una disabilità. Il parlare comune confonde questi due termini inconsapevole che due persone caratterizzate da uno stesso deficit (sia esso motorio, visivo, cognitivo e così via) non sono necessariamente accomunate dallo stesso handicap. Molto dipende dalla maniera in cui si è curato/compensato/affrontato il deficit, che dipende a sua volta dalla rete familiare e comunitaria in cui il soggetto si ritrova.

Al di là dell’esattezza fisica del termine, mi è sempre piaciuto pensare che l’handicap (molto più del deficit) abbia un peso specifico e che questo sia variabile, non dato. Perché questo passaggio dal dato all’indefinito possa avvenire, occorre che la gravità sia distribuita. Non è solo un modo per condividere la fatica data da una situazione (la situazione di handicap), ma per condividerne il portato, le prospettive di consapevolezza che può aprire. Nel momento in cui divido il peso, ecco che aumento la capacità di “rivelare” delle cose. Non condivido unicamente la fatica, ma la condizione in cui la fatica mi pone. Distribuire non ha solo l’obiettivo (egoistico o mosso dalla necessità) di alleggerire, quindi di sottrarre, ma anche quello di condividere in termini di crescita, di disvelamento. Si rinuncia ad una parte di peso per distribuire la consapevolezza alla quale il peso porta. Si legano, così, azione e riflessione, condivisione e progresso, singolo e comunità.

Credo che sia importante (soprattutto in un momento di mortificazione continua e spregiudicata delle persone con disabilità e delle loro famiglie con la scusa dei falsi invalidi), ripiegarsi su se stessi come singoli e come comunità per cercare di esplorare il senso e il modo del nostro vivere la disabilità, a prescindere da quanto ci tocchi da vicino.

A cosa pensava Simone mentre sosteneva quella Croce? Si può identificare questa figura solo con la più ristretta cerchia familiare di un disabile? E qual è il ruolo della comunità in tutto questo? Le parole di Claudio aprono interessanti piste di riflessione…

Maria Grazia

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